Sei anni fa, nel 2005, gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) calcolavano che le vittime dell’incidente avvenuto nell’aprile del 1986 alla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, potevano essere fino a 4000 a causa dell’esposizione ad un’elevata dose di radiazioni atomiche; un numero, quello riportato su un documento di 600 pagine dell’Oms del settembre 2005, che include le possibili morti per cancri e leucemie dovuti alle radiazioni, oltre a previsioni statistiche basate su una stima delle dosi di radiazioni ricevute dalla popolazione residente vicina alla centrale. Negli anni immediatamente successivi all’incidente (avvenuto all’interno del nocciolo della centrale nucleare) 40 persone sono morte in seguito a malattie sviluppate per l’esposizione alle radiazioni. Più di cinque milioni di esseri umani vivono ancora oggi in zone contaminate da materiali radioattivi. Molti hanno dimostrato elevati livelli di ansia, molteplici e inspiegabili sintomi fisici e un livello di salute percepita assai scarso se paragonato a quello delle popolazioni non esposte a radiazioni.

Ed oggi, venticinque anni dopo il terribile incidente alla centrale di Chernobyl, molti affermano che le cose stanno migliorando e che gli impianti atomici sono “più sicuri”. Eppure continuano ad avvenire incidenti, come quello della centrale di Fukushima, in Giappone, dove, dopo il terremoto e il devastante tsunami che ha colpito il paese a marzo, è ora in corso una nuova “crisi nucleare”. Migliaia di persone rischiano di ammalarsi a causa delle radiazioni nell’aria, nell’acqua e nel cibo causate dal guasto all’impianto di Fukushima. Molti affermano che l’incidente di Fukushima era “imprevedibile”, che non si può fermare il progresso nel timore di catastrofi naturali e che “le cose stanno migliorando”. Un incidente in una centrale atomica, tuttavia, non è un incidente qualsiasi: il rischio è altissimo e non è solo la radioattività che dovrebbe far preoccupare.

Come scrivono nove Premi Nobel per la pace, in un appello lanciato ai leader del mondo nel 25mo anniversario del disastro di Chernobyl, “ogni anello della catena del combustibile nucleare rilascia radiazioni, a partire dalla perforazione per l’uranio; le scorie radioattive del plutonio poi rimangono tossiche per migliaia di anni”. Le scorie, in particolare, rimangono uno dei grandi problemi irrisolti dell’energia nucleare.  “Nonostante anni di ricerca – scrivono i premi Nobel nel loro appello – i paesi con programmi di energia nucleare, come gli Stati Uniti, non sono riusciti a risolvere il problema  di trovare un luogo sicuro anche per il combustibile esaurito.

Nel frattempo, ogni giorno di più, questo combustibile aumenta” e diminuiscono i luoghi per la conservazione, peraltro solo temporanea, delle scorie. E allora, a 25 anni da Chernobyl e a quasi due mesi da Fukushima, “se non possiamo fermare le catastrofi naturali, possiamo però fare scelte migliori sulle nostre fonti energetiche”. Come scrivono Rigoberta Menchù e Desmund Tutu (Premi Nobel per la pace), “le fonti energetiche rinnovabili sono una delle chiavi più potenti per un futuro di pace”.

Negli ultimi anni è cresciuto il numero dei paesi che utilizzano l’energia solare, eolica e proveniente da altre fonti rinnovabili: si è diffusa poi in alcune fasce della popolazione mondiale l’idea che si possa anche consumare meno e mantenere un basso livello di emissioni di anidride carbonica.  Ci sono governi, come quello tedesco, che hanno deciso di prendersi una “pausa di riflessione” sul nucleare, ma non basta. È necessario un impegno per un futuro “a basso tenore di carbonio” e senza nucleare. Solo così, affermano la Menchù e gli altri Premi Nobel, si potrà “creare una potente eredità per proteggere e sostenere non solo le generazioni future, ma anche il nostro stesso pianeta”.

Giorgia Lamaro -ilmegafono.org