Milano: una calda serata primaverile. C’è un bambino davanti a me, dentro ad un passeggino. Pelle scura, occhi grandi e sorriso immenso. Avrà circa due anni. Ha catturato l’attenzione di tutti quelli che sono attorno a lui. Ride, manda baci con la sua piccola mano, saluta. E scherza. Si prende gioco delle signore che, sotto gli occhi timidi ma divertiti della madre, provano a prendere il bicchiere di cartone che lui finge di regalare, salvo poi ritrarre la mano all’ultimo momento, accompagnando il gesto con una risata che illumina il suo sguardo e l’intero volto. Sarà cingalese o pakistano di origine, poco importa, si tratta di un bambino appartenente a quella che viene chiamata seconda generazione. Un bambino italiano. Nel centro di Milano quel sorriso e quell’ironia fatta di gesti hanno conquistato circa una decina di persone. Tutte a complimentarsi con la madre per la bellezza di quel bimbo.

Canale di Sicilia: il mare è in tempesta. C’è una speranza che si muove tra le onde, anzi sono una massa di speranze, tutte insieme, incollate l’una all’altra e, in mezzo a loro, piccolissime fiammelle che luccicano e che ancora non sanno nemmeno cosa significhi sperare. Sono stipate in un tappeto di legno che li trasporta verso l’unica riva in cui, in qualche modo, si intravede la parola futuro. Tremano, queste speranze, si allarmano, cominciano a sentire il vuoto, lo scricchiolio, l’umido delle onde che le circonda. Si tendono in avanti, inseguono la salvezza. È un attimo (quanto duri realmente questo genere di attimi non lo sapremo mai) e questo immenso insieme di speranze si capovolge, crolla, annaspa, infine scompare, inghiottito dal mare. L’eterna competizione tra cielo e mare per il primato di custode dei sogni non si risolve, perché in quell’istante entrambi cessano di esistere, anche se qualcuno avrà di certo invocato il cielo mentre il mare gli riempiva i polmoni. Sono 250 esseri umani che, in un attimo, sono scomparsi insieme ai loro sogni.

Non ce l’hanno fatta. E adesso galleggiano, svuotati di vita e di speranza, in quel maledetto tratto di acqua salata che è ormai un tappeto di croci invisibili, sotto il quale giacciono storie, dolori, illusioni, fede, rabbia. Ci sono occhi grandi sotto quel mare, occhi neri immensi e dolci, voci ancora imperfette, sorrisi ingenui che illuminano volti ancora piccoli, minuscoli. Bambini, figli affidati ad una speranza, costretti a fuggire da tutto, legati al destino dei loro genitori e della loro terra. Ci sono loro e le loro madri, i padri, i fratelli. Questa è la massa di esseri umani che si muove, che viaggia verso l’Italia per fuggire dall’orrore e dagli stenti della guerra e delle persecuzioni. Somali ed eritrei, in rotta verso l’Europa, con partenza dai porti libici, quei porti dove, prima che la politica italiana scoprisse di non essere più amica di Gheddafi, venivano rimandati, “respinti”.

Uomini, donne e bambini, che, se giunti in Italia, avrebbero trovato l’accoglienza infernale dei nostri centri di permanenza (inutile mettere sigle, ormai contano poco e non differenziano nulla), ma forse prima o poi sarebbero riusciti a vivere una vita “normale”. Quegli stessi bambini avrebbero potuto essere la fotocopia di quel bimbo che a Milano, in un pomeriggio afoso di aprile, regalava sorrisi e baci a tutti coloro che lo ammiravano entusiasti. Bisognerebbe pensare a quella quotidianità spezzata più che alla pietà, che in molti adesso accentuano, come se non avessero mai saputo, come se fosse la prima volta che il mare portasse con sé un gruppo di migranti in rotta verso il proprio domani. Molti di quelli che oggi si mostrano pietosi e cauti dimenticheranno in fretta, ne sono quasi certo.

Anche molti mass media, che oggi puntano i riflettori sulla sciagura (perché la tragedia che è funzionale all’attualità e “utile” alla spettacolarizzazione del dolore non si può non raccontare), tra poche settimane li spegneranno. Lo testimonia il fatto che c’è già chi, affermando che si tratti del più grande naufragio avvenuto nel Mediterraneo, mostra ingenuamente di aver già dimenticato i 293 morti del Natale ’96, in quello che per anni, in modo indegno e orribile, è stato considerato un naufragio fantasma, finché qualcuno (il giornalista Giovanni Maria Bellu) non ha svelato con le immagini l’esistenza di quei morti o di quel che ne restava. Ed allora per una volta non ci si fermi al dolore, non ci si metta il cuore in pace con un pizzico di pietà. Ipocrisia: sarebbe solo questo e nulla più. Quelle vittime sono vite spezzate nella loro quotidianità, nei loro sorrisi, nelle loro paure, nel loro amore, nei sogni, nel coraggio di mettersi in gioco, di rischiare tutto pur di sfuggire alle atrocità, all’orrore.

Salvarsi rischiando la vita, perché non hai altra scelta, perché l’essere umano è pieno di speranza e non può, anche nel buio più profondo, non essere ottimista, non credere che sarà possibile farcela. Magari affidandosi ciascuno al proprio Dio. Un ragazzo ivoriano, una volta, mi disse: “Quando ero in balìa delle onde non pensavo più a niente e, nel momento peggiore, mi sono affidato al destino, che ormai si sarebbe compiuto, in un senso o nell’altro. Non avevo più paura, ero rassegnato. Non avevo altra scelta. Non ho avuto mai altra scelta, se non quella di fuggire. Nel mio paese sarei stato ucciso di certo”.

Questi sono gli esseri umani che respingete, questi sono i “clandestini” che devono andare “fuori dalle palle”. Questi sono quelli di cui avete paura, che credete essere criminali, stupratori, assassini. Sono quei bambini che si attaccano alle braccia delle madri, sono quelle madri e quei giovani terrorizzati mentre vedono la barca spezzarsi e capovolgersi, mentre cadono giù come fossero piombo, andando a spegnersi negli abissi della nostra società colpevole. Restano giù e vi guardano, con gli occhi lucidi ad illuminare i fondali, mentre voi, che siate gente comune o rappresentanti istituzionali, li giudicate, li etichettate, li respingete.

Saranno la vostra coscienza, la coscienza di chi vota per chi li uccide, di chi mette la scheda nell’urna dopo aver siglato, con la propria firma, la condanna a morte di centinaia e centinaia di persone. Siete complici di un governo di assassini, che ha firmato accordi con altri assassini, che ha respinto gente inerme, disperata, stanca e l’ha lasciata morire nei porti libici, nelle prigioni-lager libiche, in mezzo al mare, e che oggi, di fronte all’orrore, finge dispiacere e poi risponde con la promessa funesta, idiota e minacciosa di pattugliare le coste, di fermare gli approdi. Significa fermare la speranza, impedire la salvezza di intere popolazioni. Un gesto identico a quello di chi chiude, con aria distaccata e perfida, la porta d’acciaio di una camera a gas.

Ma quella porta è fragile, per fortuna, si sgretola, perché la storia non conosce porte, non conosce muri, la storia sta iniziando a far tremare la terra sotto i piedi degli assassini. E se continuerete ad essere complici, anche voi che leggete, che giudicate, che magari criticherete la durezza delle mie parole, anche voi che vi sentite con la coscienza a posto perché vi giudicate diversi da chi al momento governa e uccide, allora anche per voi la terra tremerà e nessuno vi verrà a cercare sotto le macerie della vostra miserabile esistenza e della vostra irreversibile abiettezza.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org