Avevamo in serbo un’intervista ad un personaggio politico di primo piano (tranquilli non è uno che si sollazza in feste dai costumi disinvolti, tra eunuchi e giovinette), ma abbiamo deciso di rinviarla, per dare spazio ad un colloquio con vostro fratello o vostra sorella, vostro figlio o vostra figlia, un vostro amico o una vostra amica, vostro padre o vostra madre, voi stessi. Sì, perché non ce la sentiamo di riempire questo spazio mensile solo con nomi noti, anche se scegliamo persone egregie, dal grande spessore morale e umano. In questo preciso momento, mentre i dati nazionali sul lavoro ci mostrano un Paese che affonda, vogliamo dare la voce ad ognuno di voi e di noi, riunendo tutti nella figura del precario o del disoccupato o del licenziato ignoto, perché è così che oggi i vertici dello Stato e buona parte del mondo imprenditoriale alla Marchionne vedono i cittadini esclusi o fuoriusciti dal mondo del lavoro: invisibili e ignoti. In realtà sono un esercito in carne ed ossa, con sogni delusi, tensioni, malumori perenni. Hanno perso il sorriso, hanno perso la fiducia. Abbiamo parlato con il (non)lavoratore ignoto, abbiamo notato sul suo volto anonimo stanchezza e afflizione, a volte disperazione, altre volte rassegnazione, altre volte ancora rabbia, qualche volta speranza e tenacia. Ecco cosa ci ha raccontato.

Scusi la curiosità, Lei quanti anni ha?

Non ho età. Sono giovane, ma anche anziano, non entro nel mercato del lavoro o ci entro da precario oppure ci sono stato per 40 anni e all’improvviso il mio datore di lavoro, con la scusa della crisi, mi ha buttato in mezzo alla strada e lasciato senza stipendio con figli da mantenere e con un mercato che mi considera già vecchio ed inutile. Sono studente e so che non farò mai il lavoro che ho sempre sognato. Ho un passato e un presente, ma non ho un futuro. Quello non so nemmeno com’è fatto, so solo che a parole è facilissimo coniugarlo e definirlo, ma nei fatti, in concreto, è un’illusione. E non dovrebbe esserlo. Soprattutto per un giovane.

Di chi è la responsabilità?

In parte è degli imprenditori, ma la maggiore responsabilità è della classe politica nel suo insieme, maggioranza ed opposizione. Il problema di fondo è che la politica da 17 anni è prigioniera di Berlusconi e di chi gli permette di dettare i ritmi e i contenuti del dibattito. La colpa è generalizzata, perché anche chi oggi è all’opposizione si è accorto con troppo ritardo delle condizioni disastrose del Paese, delle condizioni di due-tre generazioni che hanno smarrito il loro futuro. Tutti coloro che si sono laternati al governo hanno ignorato per anni i dati allarmanti sull’emigrazione all’estero, sullo svuotamento del Sud per la nuova ondata di migrazione interna. Le misure sulla flessibilità poi hanno rappresentato una svolta violenta che ha massacrato i lavoratori.

Si riferisce alla legge Biagi?

Mi riferisco al pacchetto Treu e alla legge 30. Non mi piace chiamarla legge Biagi, perché si finisce inevitabilmente nel tranello ignobile che la destra ha costruito per difendere l’interesse delle imprese amiche. Marco Biagi era un ottimo giuslavorista, che voleva adeguare il mondo del lavoro italiano ai meccanismi più moderni diffusi in altri paesi. La flessibilità è un sistema che dovrebbe dare più opportunità di lavoro, ma solo se accompagnata con tutta una serie di ammortizzatori sociali e accorgimenti che rendano soft il passaggio da un impiego ad un altro. Biagi lo aveva detto: il suo era solo l’impianto del sistema che aveva in testa, era incompleto per definizione. Appena è stato ucciso da quei  folli e patetici coglioni delle Br, la destra ha fatto diventare quello schema una legge e l’ha continuamente nominata con il nome del giuslavorista, cosicché chiunque si permettesse di criticare in modo motivato la “legge Biagi” potesse essere facilmente zittito, accusato di sciacallaggio, richiamato al “rispetto della memoria”. Tutte strategie per allontanarsi dal cuore della questione, per distrarre i cittadini dai contenuti legittimi della critica.

Flessibilità o no, Lei ha difficoltà con il lavoro: per caso è affetto da “inattitudine all’umiltà” come dice qualcuno?

Veramente a quel qualcuno farei vedere quanti lavori ho fatto in vita mia… L’umiltà manca ad altri, a chi si considera arrivato perché siede su una poltrona in cui è stato messo da uno pseudo-dittatore.   “Lavori più umili” è un’espressione che non sopporto, perché non esiste il lavoro umile o altolocato, esiste solo il lavoro onesto: ogni attività lavorativa pulita ha pari dignità e pari utilità. Il netturbino, il muratore o il contadino sono considerati lavori di basso profilo? Beh, se non vi fossero vivremmo in mezzo alla spazzatura (anche se ormai non bastano solo i netturbini), non avremmo chi costruisce o restaura i palazzi e le case, né frutta o verdura fresca sulle nostre tavole. Quindi l’errore snobista lo fa chi dice certe stronzate. La gran parte dei giovani oggi è impiegata in mansioni che non hanno nulla a che vedere con le loro reali competenze e qualifiche.

Ma ha ragione o no chi sostiene che, soprattutto i giovani, dovrebbero accettare qualsiasi lavoro?

Assolutamente no. Che ci siano giovani che si cullano sulla pazienza delle famiglie senza far nulla, senza impegnarsi in qualcosa di serio finalizzato ad un’indipendenza dal nucleo familiare, non è una falsità, ma si tratta di qualcosa che c’è e c’è sempre stato. I vitelloni non sono nati negli anni ’90! Le parole accusatrici usate in questi anni sono inaccettabili, perché una nazione fallisce quando spinge i giovani a qualificarsi sempre di più e poi li esclude perché sono troppo qualificati. In molti uffici, sia nel pubblico che nel privato, ci sono impiegati che, ad esempio, non sanno una parola di inglese, fanno impazzire i computer, hanno un livello di formazione non all’altezza: ai giovani si chiedono tutte queste cose, a scapito dell’esperienza sul campo, poi però una volta terminato questo percorso li si tratta da reietti perché sono troppo preparati ma  non hanno abbastanza esperienza! Una presa in giro bella e buona.

Un’altra curiosità: Lei è italiano?

Io sì, ma potrei essere straniero… Per fortuna che non lo sono!

Che intende?

Se fossi stato un immigrato mica sarei qui a parlarle, avrei altro da fare, sarei a spezzarmi la schiena nei cantieri edili o nelle campagne, magari a pulire il sedere agli anziani che gli italiani hanno dimenticato e trattano spesso come pesi ingombranti da smaltire. E sarei con ancora meno diritti, magari senza un documento o una casa, perseguitato da tutti, dai datori di lavoro, dalla polizia, da quei pagliacci vestiti di verde che fanno tanto i gradassi nelle loro esibizioni da circo (sotto i gazebo sembrano tanti babbuini psicopatici) e poi avrebbero il terrore a trovarsi da soli faccia a faccia con un nero. E la mia voce sarebbe contata ancor meno di quanto già non conti la mia di italiano.

Da che parte d’Italia arriva?

Dal Sud, decisamente dal Sud. Sono uno dei centinaia di migliaia di giovani andato via in questi anni, costretto a lasciare tutto per poter tentare di trovare un lavoro. Sono uno di quelli che ha partecipato allo svuotamento delle città del Meridione, soprattutto le città di provincia, dove non c’è nulla, dove le prospettive si riducono. Non è giusto, è un dolore troppo forte che ci portiamo dietro, una scelta obbligata, una costrizione che mettiamo nel conto quando cresciamo vedendo gli altri, gli amici, gli affetti andare via.

Mi pare di capire che Lei è un uomo …

Sono un uomo… o forse sono una donna che se la passa male, perché non mi hanno rinnovato il contratto appena hanno saputo che ero incinta, mi hanno discriminato mille volte, mi hanno chiesto ad ogni colloquio se per caso avessi la pretesa di sposarmi e diventare madre un giorno ed alla mia risposta affermativa mi hanno scartato. Sono straniera e sono una schiava silenziosa del mondo delle badanti, quelle che la gente “per bene”, che non ha tempo e che deve anche godersi la vita (cavolo, mica si può sempre lavorare!), chiama genericamente “polacche” e sfrutta a basso costo per affibbiargli i lavori di casa e di assistenza agli anziani. Forse sono un omosessuale o un trans, a cui non è permesso mostrarsi per quello che si è: sé stessi. Altrimenti si rischia il posto, si viene licenziati o non si viene nemmeno assunti.

Cosa deve fare oggi chi è in questa situazione per costringere il potere ad affrontare il problema?

Darsi fuoco come quel ragazzo tunisino? Oppure salire su una gru come gli immigrati in Italia? O spaccare tutto e assediare il parlamento come hanno fatto i giovani greci? Forse dovremmo fare quest’ultima cosa, la più utile, forse dovremmo bloccare le piazze, le strade, spingere le forze dell’ordine a stare con noi, perché anche i loro figli sono nelle nostre condizioni, perché siamo tutti popolo e dovremmo combattere contro chi pensa di governare il popolo come se fosse un gregge, sebbene gli italiani oggi non sono poi tanto dissimili da un allevamento di pecore… C’è bisogno di azione, non ha senso aspettare il salvatore che arrivi dall’alto.

Ci riusciremo?

Sinceramente? Non credo.

E perché?

Perché se ci fermiamo alle parole faremo il loro gioco. Resteremo ignoti e invisibili, muti, zoppi. Loro vogliono questo. Ci vogliono senza voce, senza volto, senza gambe. Scendere in piazza è l’unica soluzione per irritarli, perché la piazza è il luogo in cui le facce si mostrano, le gambe camminano bene e le voci si uniscono per rompere il silenzio. Ma per arrivare ad invadere le strade ad oltranza e non solo per un giorno, in questo Paese bisogna toccare il fondo.

Più di così?

Molto più di così. Ancora non abbiamo visto tutto quel che c′è da vedere…

Redazione –ilmegafono.org