Da qualche tempo sento troppa gente, soprattutto colleghi, storcere il naso quando viene pronunciato il nome di Roberto Saviano, quando si parla di lui, dei suoi libri e del suo prezioso contributo culturale alla lotta contro le mafie. Mi capita spesso di avere scambi di opinioni sulle qualità di quest’uomo di 31 anni che, per un libro, si trova a vivere una vita blindata e anormale. C’è chi sostiene che Saviano sia solo un buon comunicatore, ma non un buon giornalista, perché “usa fonti di altri colleghi e non le cita”, perché non ha “uno stile professionale”, “prende posizione”, nei suoi articoli non è “distaccato”, “ci mette sé stesso”, ci infila “troppe riflessioni personali”. Da questi discorsi si finisce facilmente a parlare di giornalismo, di cosa sia oggi il giornalismo italiano, quale sia o dovrebbe essere la sua funzione in un Paese come il nostro. Troppo spesso, nel corso di queste discussioni, mi trovo in minoranza quando sostengo che il modello più diffuso oggi, per intenderci quello che ti insegnano nelle costosissime scuole di giornalismo, vada bene per la cronaca o per fare attività di servizio, per spiegare una normativa o per il settore economico, mentre sia totalmente inadeguato quando si fa inchiesta.

In molte redazioni, caporedattori e direttori vogliono un pezzo “anglosassone”, vogliono che nel raccontare vicende complesse a cui magari lavori per mesi tu debba eliminare qualsiasi parola complessa o che possa evocare qualcosa o condizionare ed indirizzare la coscienza critica del lettore. Insomma, da un lato si immagina un lettore ignorante e si avverte l’esigenza di semplificare al massimo per consentire a tutti, anche ai più sprovveduti, di capire la questione (e su questo nulla da dire, ma bisognerebbe semplificare il quadro di insieme e non ogni singola parola, altrimenti si perde il senso stesso del leggere, la sua funzione culturale); dall’altro, però, si ritiene il lettore in grado di farsi da sé un’idea sui fatti esposti in maniera asettica, fredda. Nessuno deve influenzare il punto di vista di chi legge, il quale è ritenuto capace di percepire da sé la gravità di un fatto esposto. Questo è quanto ti dicono coloro che insegnano ed è ciò che un esercito di colleghi tiene a mente come una verità sacra ed intoccabile, immodificabile. Se, però, c’è una cosa che ho imparato nella vita è che la scrittura è pura libertà, affascina e coinvolge proprio perché non ha nulla di immodificabile. Le parole sono qualcosa che nessuna regola, né una prigione, né una pistola possono fermare.

La storia dell’umanità e del pensiero è piena di parole che hanno partorito il cambiamento, colpendo la gente al cuore, scuotendola con la loro durezza o con la loro profondità. Ci sono scritti che hanno cambiato il mondo, mettendo a nudo i potenti, facendoli tremare davanti ad un gruppo di parole messe insieme con forza, dignità, rigore. Per fortuna il mondo non ha mai ascoltato le regole dei burocrati della scrittura. Ricordo qualche anno fa che un tale, drogato di ideologia e di ottusità, mi disse che Pippo Fava era solo “un rompic…”, che non seguiva nessun codice giornalistico, che non rimaneva distante rispetto a ciò che scriveva. Fava invece era un giornalista vero e sapeva prendere posizione di fronte a qualcosa rispetto a cui non puoi rimanere distaccato, non puoi fare l’anglosassone. Come lui anche Saviano conosce il valore delle parole, sa che le parole vanno riempite con la rabbia di chi lotta, sa che devono scuotere, provocare, colpire allo stomaco, fare incazzare chi legge, metterlo anche davanti alla propria meschinità.

Magari questa scelta ti costa personalmente, perché ti attira non solo consensi, ma anche tantissime critiche, minacce, ingiurie. Ti chiameranno giornalista con disprezzo, ti diranno che non farai mai strada, che non è questo il “metodo” giusto per arrivare alla gente. Il loro problema, però, è che non capiscono nemmeno che non si tratta di metodo, ma di un modo naturale, spontaneo di scrivere e di raccontare. La realtà che finisce dentro ad un’inchiesta solitamente è una realtà dura, che comprende sofferenze, dolori o una vergogna di qualche genere. Il giornalista si infila in quella realtà, prima di tutto si informa, poi conosce, parla con i diretti interessati, guarda negli occhi di chi soffre, diventa la voce di chi non ne ha. E tutto ciò, spesso, è la ragione che ti porta a scrivere. Si chiama passione sociale o amore per la verità, non per i codicilli, per i tesserini, per i buoni pasto o per gli ingressi gratuiti … Come si può pensare che di fronte alla vita vera si rimanga freddi? Ciò non vuol dire essere parziali, ma di fronte a certe ingiustizie oggettive, evidenti, visibili, come fa il giornalista a non dare un proprio taglio?

Come faceva Fabrizio Gatti, infiltratosi in mezzo alle campagne foggiane, a non mettere un po’ della sua indignazione mentre raccontava di stupri in cambio di lavoro o di schiene spezzate o di gente sparita nel nulla? Di fronte a certi orrori non ci si può nascondere dietro canoni che poi, in altri settori del giornalismo (in cui il distacco è facile oltre che necessario), altri non rispettano. Roberto Saviano ha sbattuto in faccia ai lettori la realtà cruda e nuda, le sue parole hanno scioccato, hanno fatto emergere la rabbia di un ragazzo che non ne poteva più del silenzio imperante sulla sua terra e della solitudine dei migliori uomini dello Stato. Ha venduto milioni di copie, i suoi articoli sono i più letti su Repubblica e sul web, milioni di persone lo seguono, lo ascoltano e adesso sanno. La camorra ha paura, teme le parole, sa che dette così possono cambiare le coscienze, creare indignazione, modificare comportamenti, stimolare ribellioni. E questo significa rischiare di perdere il controllo e il consenso. Per tale ragione la camorra minaccia di morte Roberto.

Ma molti capoccia del giornalismo (e non solo) preferiscono storcere il naso, perché sono invidiosi delle prime pagine, dello spazio mediatico, dell’enorme seguito. Un’ostilità che usa il paravento del canone di scrittura, delle regole da manuale. Ma quanti grandi giornalisti usavano il manuale? Quanti di loro si sono formati nelle scuole e quanti nella frenesia di una redazione o semplicemente sul campo, annusando l’ingiustizia, scavandovi dentro e poi raccontandola senza paura, senza distacco, disposti a scrivere senza badare all’ombra minacciosa della morte, dell’eliminazione. Sono tanti i nomi che mi vengono in mente, ma ce n’è uno su tutti, uno a cui Saviano tiene molto: è Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra a 26 anni per aver scritto la verità. In una celebre scena del film a lui dedicato (“Fortapàsc”), si marca la differenza tra il “giornalista-impiegato” e il “giornalista-giornalista”.

Oggi in Italia ci vorrebbero molti più esponenti della seconda categoria, perché l’attuale lettore italiano non ha solo bisogno di verità, ma anche che qualcuno, con durezza e rabbia, gliela metta davanti agli occhi, magari facendogli notare di essere pure complice di ciò che non va, che non funziona. Non è il momento né il Paese giusto per il giornalismo “british”. Non serve, non colpisce, non crea opinione e non stimola impegno. Ai colleghi che non approveranno mai questa visione chiederei per quale motivo hanno deciso di scrivere e di fare i giornalisti e, soprattutto, quando hanno sentito davvero di esserlo. Ai lettori chiedo solo di riflettere e di farlo senza fretta.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org