Da ormai molti, troppi decenni, da quando l’Ilva è stata aperta a Taranto e, tradendo le aspettative dei fiduciosi abitanti del luogo, più che lavoro e ricchezza ha portato malattie e morte, per i tarantini il rosa è il colore della morte, l’indicatore tangibile di quanto grave sia l’inquinamento nella loro città. Adesso però quello stesso colore avrà l’occasione di riscattarsi, di assumere una valenza tutta positiva. Il rosa non sarà più solo il colore della polvere tossica emessa dall’impianto siderurgico che, cadendo dal cielo, contamina e sporca tutto ciò che incontra, sarà anche e soprattutto il colore della lotta per Taranto, dell’opposizione all’incessante stupro di un territorio già notevolmente compromesso. A Taranto sono scese in campo le donne per rivendicare il diritto, loro e dei loro figli, a vivere in un ambiente salubre. Donne, mogli, madri, figlie, stanche di vedere i loro padri o i loro mariti ammalarsi dopo aver lavorato per anni presso lo stabilimento, abituate a controllare da che parte soffia il vento prima di stendere il loro bucato pulito all’aria aperta, sconvolte dall’aver appreso che allattando i propri figli li avvelenano, arrabbiate.

A descrivere per la prima volta l’esasperazione delle tarantine e la loro conseguente scesa in campo contro l’Ilva è stato il documentario “La svolta. Donne contro l’Ilva”, proiettato durante la Mostra del cinema di Venezia. Nel documentario vengono riassunte le esperienze di 6 donne (Anna, Caterina, Francesca, Margherita, Patrizia e Vita), sei vittime dell’impianto che, nel loro dolore per la morte di un figlio o di un marito o per la propria malattia, trovano comunque la forza e la dignità di ribellarsi a chi ha distrutto la loro vita. A riprova della straordinarietà del loro impegno e della loro forza, le sei protagoniste sono state scelte per concorrere al premio “Ambientalista dell’anno 2010”. La regista del documentario, Valentina D’Amico, ha dichiarato che a spingerla ad affrontare un argomento tanto spinoso è stata la propria indignazione per l’intera situazione.

“Da qualunque direzione ci si avvicini- ha dichiarato- ci si imbatte in una città violentata. Imponenti strutture industriali sbuffano fumi di tutti i colori che soffocano quartieri, bruciano palazzi, raschiano polmoni. In nome dello sviluppo si è annientata una città, il suo ambiente, i suoi abitanti, la loro salute”. La D’Amico ha inoltre fatto presente che all’Ilva non è imputabile solo la devastazione ambientale ma anche l’eccessivo tasso di mortalità sul lavoro. “Se oggi tutti conoscono la tragedia dei sette operai arsi vivi nell’officina della ThyssenKrupp a Torino – ha affermato- troppo pochi conoscono la vicenda dei 180 operai morti (tanti dalla prima apertura dei cancelli nel 1961) e della devastazione ambientale provocati dal terzo stabilimento siderurgico del mondo. Perché? Perché siamo al Sud e al Sud tutto è lecito?”.

A chi le ha chiesto quale fosse lo scopo del suo documentario ha infine spiegato che, la situazione di Taranto, pur essendo decisamente grave, è ben poco conosciuta nel resto d’Italia e che è necessario trovare un metodo per infrangere tale barriera di silenzio e di indifferenza che è uno dei più grandi ostacoli all’effettiva risoluzione dell’intera vicenda. Ed in effetti sembrerebbe che una “svolta” il documentario l’abbia davvero segnata:  non solo è riuscito a scalfire la barriera del silenzio, tant’è che dell’Ilva adesso si comincia a parlare anche in ambito nazionale, ma ha anche dato coraggio e consapevolezza alle donne tarantine. È recentissima la costituzione del comitato “Donne per Taranto”, un gruppo di donne “incazzate” (così si sono autodefinite) e stanche di vedere un territorio martoriato da industria, politici e amministratori a scapito della salute loro e dei loro bambini. Donne fiduciose nella forza e nella specialità di un intervento femminile.

“Il nostro apporto- hanno affermato- sarà semplicemente “diverso” da quello maschile, come diversi sono i modi di vivere e di lottare tra uomini e donne. Donne di natura passionali, forti, concrete e soprattutto coraggiose: quale donna non darebbe la vita per il proprio figlio? Quale donna non camminerebbe in testa ad un corteo sfidando polizia e manganelli per difendere il diritto di un bambino?”. Donne fortificate da una vita di paure e ansie inimmaginabili: “A Taranto -raccontano- una mamma vive di paura e di sensi di colpa. Di paura perchè ogni piccolo segnale (pallore, stanchezza, inappetenza) desta preoccupazione e ansia più di quanto non accada ad altre mamme di altre città; sensi di colpa per il fatto di continuare a far vivere, respirare, giocare i propri figli in un mondo che non meritano”. Donne coraggiose che sperano di aiutare altre donne a trovare il medesimo coraggio per lottare tutte insieme contro il mostro che uccide i loro bambini. E forse sarà proprio questo il segreto del loro successo; in natura si sa, non c’è nessuno più forte di una “femmina”che lotta per proteggere i propri cuccioli.

Anna Serrapelle -ilmegafono.org