Un sorriso, qualcosa che dovrebbe accompagnare gesti gentili, momenti di serenità ed allegria. Questa volta, invece, un sorriso che sorge sulla faccia di un ventenne nascosto da un cappuccio blu mentre viene portato in carcere, tra i cori e gli applausi degli amici, è il segno dell’arroganza, della vigliaccheria, della bassezza umana. È così che Alessio Burtone, il ragazzo romano che ha ucciso con un pugno l’infermiera rumena, Maricica Hahaianu, dopo un diverbio all’uscita della stazione Anagnina, a Roma, ha voluto mostrarsi di fronte ai suoi compagni di nulla, che lo acclamavano e allo stesso tempo inveivano contro i carabinieri. In quel sorriso c’è l’Italia di oggi, una parte di quell’Italia che è drogata da un clima culturale perverso e da una sottocultura sempre più estesa. Quella di Roma non è solo una tragica pagina di cronaca, ma è l’ennesima riprova di un sentimento di discriminazione che si infila tra i gangli della società italiana, inquinandola, squarciando via qualsiasi sentimento di pietà, smascherando logiche xenofobe che non si arrestano nemmeno di fronte alla morte, alla cruda violenza di un assassino.

Scene come queste fanno male non solo a chi ha perso, in un attimo, una moglie, una madre, una figlia, ma anche a chi ancora è capace di credere che il mondo non sia questo, non può esserlo, e che questo sia solo un periodo oscuro, disumano e buio, ma destinato a passare. Un balordo uccide una donna, per una lite banale, in pieno giorno, con un semplice gesto, diretto, immediato, facile. È disarmante pensare che la vita di una persona possa valere così poco, che qualcuno possa decidere con un solo movimento del braccio di spegnere i sogni, i sacrifici, gli affetti, la luce di un essere umano. Ancor più disarmante, però, è assistere a quel maldestro ma minaccioso senso di impunità che circonda vicende come queste. Per giorni, il colpevole ha cercato di prenderci in giro, mostrandosi pentito, facendo sapere di aver paura del carcere. Ha cercato di puntare sulla sua non volontà di uccidere, sul fatto di essere stato provocato. Tentativo che è “normale” in questi casi, non è né il primo né l’ultimo imputato a cercare di alleggerire la sua posizione.

Il problema è che stavolta ha trovato diverse sponde, non solo tra i familiari e gli amici con cui passava le giornate al bar o a far nulla (lontani mille miglia dall’idea del lavoro, da interessi culturali, da attività di volontariato), ma anche tra la gente comune e perfino in alcuni esponenti del mondo politico, come il sottosegretario ai Beni Culturali, Francesco Giro, il quale in una nota chiedeva di non portare in galera il ragazzo, di pensare a pene alternative, perché il carcere in casi come questi non è una buona soluzione, visto anche l’aumento dei suicidi. Una posizione, però, che non ha nulla di filantropico come vorrebbe far credere Giro, perché le stesse premure non si hanno quando nella parte del carnefice c’è un immigrato, oppure quando un immigrato, per il solo motivo di non essere in regola con i documenti di soggiorno e di non aver ottemperato ad un ordine di espulsione, viene trattenuto per mesi in carcere. Le parole di Giro sono strumentali e cariche di urticante ipocrisia.

E allora giù la maschera: questo non è un semplice fatto di cronaca, ma è lo specchio del razzismo che a Roma e nel resto d’Italia serpeggia e si insinua tra le menti ammuffite del popolo bue e di chi lo rappresenta. Ed è anche lo specchio di una deriva maschilista becera, che travolge la pietà, cancella ogni buon senso e persino le regole più essenziali del rapporto uomo-donna. Tutti a dire che il giovane è stato provocato, che lei gli ha sputato, lo ha spintonato, lo ha offeso e che, quindi, in qualche maniera lo ha indotto a reagire. Ma con quale coraggio si può colpire una donna? Parlare di provocazione, di induzione all’atto violento ha il sapore marcio di brutali scenari già assaggiati e mai digeriti. È la stessa logica con cui la società maschilista per anni ha giustificato, in maniera più o meno velata, lo stupro, attribuendo almeno una parte della responsabilità alla donna, al suo “atteggiamento provocante”, al suo “modo di vestire”, al suo “stare in giro fino a tarda notte”.

Quante volte, con la pelle d’oca, abbiamo ascoltato facce vuote e rozze dire, con agghiacciante cattiveria, “quella lì se l’è cercata”. Ecco che allora la scena si ripete anche qui, di fronte ad una testa calda, il cui unico impiego quotidiano a quanto pare consisteva nel giocare a biliardo in un bar con amici uguali a lui: “se una femmina ti attacca non puoi più trattarla come tale”, “è stata lei a provocarlo”, “lui anzi ha resistito tanto”, e per finire l’immancabile “lui ha sbagliato, però lei se l’è cercata”. E poi, come si è visto in un servizio del tg3, si sente pure gente, giovani e meno giovani, che pensa che la colpa sia dei rumeni, che “sono violenti, rubano, puzzano, sporcano”, perché evidentemente qualcuno c’è rimasto male che l’assassino sia italiano, e così ha messo in moto una sorta di rimozione della realtà, in modo da convincersi che anche stavolta il bruto fosse straniero.

Perché in tanti aspettavano di poter partecipare a qualche bella fiaccolata, a qualche bella manifestazione da fare insieme a chi a Roma promuove svastiche e cori fascisti, per chiedere giustizia, per chiedere la cacciata degli stranieri, per inneggiare alla pena di morte. Perché coloro che oggi chiedono la liberazione di Burtone, di sicuro sono gli stessi che, quando è uno straniero a compiere un delitto, urlano a gran voce “a morte!”. Ma gli è andata male questa volta, perché l’assassino è italiano e la vittima straniera. E allora d’improvviso si scopre l’“umanità” dell’on. Giro che si preoccupa della durezza del carcere, si ha pietà e comprensione per l’omicida, si solidarizza con lui, si fa passare un messaggio terribile, secondo cui anche l’assassinio può avere diverso valore a seconda di chi lo commette, con soglie di tolleranza differenti a seconda che l’autore sia italiano o straniero.

E poi se sei donna e pure immigrata non hai diritto di arrabbiarti se un ragazzo cafone dice qualcosa sul tuo paese di origine, ti insulta, fa il bullo con te proprio perché sei più debole. Sì, perché Burtone a gennaio aveva già picchiato una donna. Insomma la delicatezza e il coraggio non sono mai stati patrimonio di questo giovane romano che ora i suoi amici guardano come un mito, come se fosse un innocente colpito da un’ingiustizia tremenda. Un tipico vigliacco, uno che faceva il forte con le donne, alzando le mani facilmente, e che poi se la fa sotto davanti alla prospettiva di finire in galera, in mezzo ai detenuti, a quelli che gli atteggiamenti da bullo ed i pugni non li accettano senza reagire. Forse ha paura di qualche rumeno che in carcere gliela possa far pagare. Ma, allo stato dei fatti, sono gli italiani che fanno i raid punitivi dopo un delitto, che vanno a devastare negozi di gente rea solo di avere la stessa nazionalità di un delinquente.

I rumeni non hanno organizzato spedizioni punitive, si sono limitati a protestare nei blog, sui giornali, per la vergognosa solidarietà di cui in Italia ha goduto questo assassino, non solo da parte di molta gente, ma anche di qualche esponente politico. Bene ha fatto Alemanno a chiedere giustizia e ad annunciare la costituzione del Comune di Roma come parte civile. Ma non basta, poiché poi quello che serve è intervenire sulla  mentalità e sulla cultura di una città che troppo spesso regala atti di violenza a sfondo razziale. Ed è lì che tutte le lacune dell’azione amministrativa vengono fuori in misura imbarazzante. Intanto, in mezzo a questa cloaca immorale, che puzza di razzismo e di ignoranza, resta sullo sfondo il dolore di una famiglia, di un marito e di una figlia di tre anni, resta il viso dolce di una donna, un’infermiera che passava il suo tempo a lavorare, ad assistere gli altri, a mettersi al servizio di chi soffre, e che, oltre alla morte, ha dovuto subire lo scempio della sua memoria. Una violenza che purtroppo tanti dimenticheranno in fretta e di cui in tanti non si sono nemmeno accorti.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org