Genova diviene ancora una volta teatro di scontri e di polemiche. Questa volta è lo stadio cittadino di Marassi a finire sotto i riflettori, a causa della guerriglia scatenata da un centinaio di ultranazionalisti serbi giunti in Italia per assistere alla gara tra la loro nazionale e quella italiana. Una gara che non si è giocata, strozzata dal minaccioso presagio di violenza che traspariva dal volto di questo nugolo di giovani criminali, assiepati nella curva a ridosso di una delle due porte. Non è intenzione di chi scrive stabilire le responsabilità di una tale situazione, le evidenti falle nel sistema di prevenzione e di coordinamento tra le forze dell’ordine serbe e quelle italiane; di sicuro quei neonazisti travestiti da tifosi, che, qualche giorno prima, avevano già messo a ferro e fuoco Belgrado durante il “Gay pride” e, prima della partita, avevano assalito l’autobus della nazionale e minacciato ed aggredito alcuni giocatori, a Genova e allo stadio non sarebbero dovuti arrivare.

Detto ciò, è innegabile che il comportamento della polizia e dell’apparato di sicurezza dentro lo stadio è stato maturo e responsabile. Chi sostiene il contrario non ha la minima idea di ciò che un’eventuale carica degli agenti dentro il settore che ospitava la tifoseria serba avrebbe provocato. Entrare avrebbe significato scatenare uno scontro violentissimo, che avrebbe inevitabilmente coinvolto anche tutti gli altri tifosi slavi (tra cui donne e bambini) che erano a Genova solo per guardare tranquillamente una partita di calcio. La scelta di vigilare da vicino senza intervenire e far prima sospendere la gara e defluire gli altri tifosi dallo stadio, ha evitato una possibile tragedia. Le autorità di polizia hanno saggiamente liberato il campo prima di occuparsi energicamente di quella minoranza di criminali che hanno offerto uno spettacolo vergognoso di inciviltà. Di questo bisogna essere onesti ed evitare inutili e sterili strumentalizzazioni. Ma il punto è un altro. Di fronte alla grande cautela dimostrata nel gestire un gruppo di delinquenti sovraeccitati, c’è una domanda che emerge con naturale immediatezza: perché la stessa cautela e lo stesso buon senso non vengono utilizzati durante le manifestazioni di studenti, lavoratori, ambientalisti?

Proprio la settimana scorsa, a Palermo, tre giovani studenti sono stati ingiustamente picchiati e arrestati dalla polizia solo perché avevano partecipato ad un presidio antifascista non autorizzato e si erano rifiutati di fornire le proprie generalità. Hanno trascorso un paio di giorni in cella, poi il Gup ha deciso di non convalidare l’arresto e ne ha disposto l’immediata scarcerazione. Ma la ferita rimane aperta. A Palermo come a Roma, dove nel 2008, durante la manifestazione degli studenti contro la riforma Gelmini, nessuno impedì l’accesso in piazza di un camioncino pieno di spranghe e di neofascisti che, subito dopo, aggredirono la folla di ragazzini che protestava civilmente. E le immagini circolate poi sulla rete mostrarono che uno dei picchiatori di estrema destra venne premurosamente invitato dai poliziotti (che lo chiamarono per nome, “Francesco”) ad entrare e rifugiarsi nella camionetta.

Un enigma che nessuno, né tantomeno il governo, ha mai chiarito. Per non parlare poi delle cariche ai lavoratori, dei calci nel sedere a docenti e precari che manifestavano sullo Stretto di Messina, alle tante altre occasioni come le cariche contro gli operai che manifestavano a Pomigliano, oppure le vergognose manganellate agli aquilani in piazza contro il governo (colpito anche il sindaco), o le cariche contro chi protestava contro l’installazione di nuove discariche nel proprio territorio. E di casi del genere, se andiamo a rovistare, ne troviamo tantissimi. Come non pensare anche a vicende in cui qualche poliziotto ha “perso la calma”, trasformando un normale controllo in una spedizione di morte (il caso del povero Aldrovandi). E ovviamente, Genova ci ricorda i drammatici giorni del G8, con l’assassinio di Carlo Giuliani e con le violenze inaudite perpetrate dalla polizia nei confronti di giovani disarmati e pacifici come quelli della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto. Violenze terribili che rappresentarono il culmine di giorni in cui, per le strade del capoluogo ligure, gli agenti si scatenarono contro manifestanti inermi, lasciando invece i pericolosi black blok liberi di agire e devastare ogni cosa.

Incongruenze, anomalie, vergogne di uno Stato che ancora oggi non riesce a rendere giustizia a coloro che hanno subito di tutto da parte di chi invece avrebbe dovuto proteggerli. Con la memoria buona che permette di non dimenticare tutto questo e con le immagini dell’altra sera ancora davanti agli occhi, ci si chiede semplicemente: perché? Qual è la ragione di questa incoerenza, di questa differenza di trattamento? Non si vuole giudicare sbrigativamente un corpo militare, dentro cui, come in ogni struttura organizzata, esistono tante brave persone, che fanno il loro dovere con pochi mezzi e rischiando la pelle per una paga normale. Il fatto è, però, che negli ultimi anni si ha la percezione che nei posti di comando, nelle dirigenze delle forze di polizia, nelle prefetture, ci sia un numero sempre crescente di personaggi con una connotazione ideologica ben precisa. È solo un’impressione, ma che si alimenta proprio grazie a questi fatti, a queste discrepanze imbarazzanti. Non si può pensare, in un Paese moderno, che la polizia agisca con cautela solo quando di fronte si trova una controparte pericolosa e aggressiva, mentre si scateni e agisca con durezza quando la controparte è fragile e disarmata.

O dobbiamo pensare che, come spesso accade, le forze dell’ordine, dipendendo dal ministero dell’Interno e quindi dal governo, rispecchino fedelmente le caratteristiche di chi le dirige? Perché se così fosse, la spiegazione sarebbe facile, dato che viviamo in un Paese guidato da un governo che mostra troppo spesso di essere forte con i deboli e debole con i forti. È possibile credere che un intero corpo militare aderisca ad una logica da regime, mostrando durezza e manganelli a chi protesta pacificamente per una causa giusta o per un proprio diritto? Non vogliamo pensare a questo, non possiamo credere che il livello democratico in Italia sia sceso davvero così in basso. Certo è che i fatti, le prove, le immagini ci mettono in testa più di un dubbio. E forse dobbiamo cominciare a convincerci che, in questo Paese, una “Rivoluzione dei Garofani” come quella portoghese non l’avremo mai. Perché noi siamo il Paese dei manganelli, siamo la nazione in cui dei militari volontari che scelgono, legittimamente, di fare i soldati e di andare in guerra (definita, per indorare la pillola, “missione di pace”) sapendo di poter morire, vengono trasformati in eroi da una retorica stucchevole e irritante.

Per carità, nessuno contesta il dolore e la pietà per dei giovani strappati alla vita in modo così violento, ma il patriottismo becero che gli ultimi presidenti della Repubblica ed una parte della destra hanno fomentato negli ultimi anni, fa sì che si scambi la pace per una missione fatta di armi e azioni militari, che si scambi per eroismo la scelta privata e consapevole di un ragazzo , mentre si lasciano soli i magistrati e i giornalisti che combattono la mafia e i suoi collegamenti perversi con lo Stato, mentre nessun onore si tributa ai lavoratori che, per campare e per far campare le proprie famiglie, muoiono nei cantieri in contesti in cui la morte non dovrebbe esserci mai. Ma la sicurezza richiederebbe capacità e assunzioni di responsabilità che la politica attuale non è in grado di mostrare. Così è più facile affidarsi alla retorica, all’esaltazione patriottica, alle frasi di circostanza, scaricando tutte le responsabilità sul nemico lontano. Questa è l’Italia, lo specchio di chi la comanda. E le forze dell’ordine, ultimamente, sembrano essersi adattate.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org