I morti non hanno nessuna necessità di lavorare, avere un lavoro, percepire uno stipendio a fine mese, avere la possibilità o la speranza di fare carriera, non possono servirti quando sei malato o perdi la vita molto precocemente. Forse questa può apparire una frase scontata, per molti versi banale, eppure è proprio questa banalità, il ricatto occupazionale, che si trova al centro di tutto ciò che concerne l’Ilva di Taranto. Lo stabilimento in questione è la più grande acciaieria d’Italia, ma questo purtroppo non è l’unico primato che possa vantare; l’Ilva è anche il luogo in cui si verificano più incidenti mortali sul lavoro (43 morti negli ultimi 15 anni, una media di quasi 3 morti l’anno), nonché lo stabilimento italiano che produce maggior inquinamento ambientale. L’inquinamento a Taranto non è solo un argomento di discussione puramente teorico, ma è un nemico tangibile, palpabile, e condiziona notevolmente la vita dei cittadini. A Taranto inquinamento è l’aria che puzza, talvolta, in base a come soffia il vento, sino a più di 10 km da dove sorge l’industria, sono le lumache alla diossina (una ricetta di recente scoperta ma decisamente sconsigliabile), è l’abbattimento, dal 2008 ad oggi, di 1500 ovini, allevati in 8 masserie tra Taranto e Statte, risultati contaminati dalla diossina e dai suoi derivati; inquinamento, infine, è la polvere rosa sui tetti delle case di Tamburi (il quartiere che sorge a ridosso dell’Ilva), ai margini della strada o sulle lapidi del cimitero (lapidi che da qualche tempo vengono già fatte rosa, probabilmente per evitare spiacevoli spiegazioni). Il rosa, il colore abitualmente associato alla serenità, alla tenerezza, a Taranto è il colore della morte. Questa morte in polvere, cadendo sull’erba, ha causato un divieto a dir poco eccezionale: in base all’ordinanza n.45 del 23 Giugno 2010 del sindaco di Taranto, è vietato l’accesso alle aree verdi ed è vivamente sconsigliato che i bambini giochino con la terra. Un divieto dai toni fantascientifici ma non a Taranto, qua che la terra sia contaminata non ha stupito nessuno. Sorprendono decisamente di più i dati clinici. Stupisce che a Taranto capiti sempre più di frequente che giovani (e bambini) abbiano patologie tumorali tipiche di persone anziane e fumatrici ed ha stupito che le analisi (commissionate nel 2008 dall’associazione ″Bambini contro l′inquinamento”) sul latte materno di 3 giovani madri tarantine abbiano mostrato concentrazioni di diossina 25 volte superiori la dose tollerabile giornaliera stabilita dall′Oms (in pratica i bimbi tarantini bevono dalle loro madri veleno). La concretezza e la gravità del fenomeno hanno notevolmente sviluppato la coscienza sociale dei cittadini di questa parte di mondo tanto devastata e così le iniziative di denuncia non mancano. Solo un anno fa è stato scritto un libro: “I quindici passi”, il cui titolo si riferisce alla distanza tra l′ultimo cancello dell’lva ed il cimitero che sancisce l’inizio del quartiere Tamburi. Se ci si sofferma un attimo a pensare che Peppino Impastato aveva usato la frase “100 passi” per indicare quanto fosse vicina la propria casa a quella del boss Badalamenti, risulta evidente che 15 passi sono davvero una distanza banale, che l’Ilva sorge proprio a ridosso del centro abitato. Un altro tentativo di denuncia più recente è stata la realizzazione del documentario “La svolta- donne contro l’Ilva”, che è stato proiettato anche in occasione del festival del cinema di Venezia e che raccoglie le testimonianze di 6 donne la cui vita è stata fortemente condizionata dalla presenza dell’Ilva e che cercano, con il loro vissuto, di sfondare il muro dell’informazione nazionale, troppo spesso distratta nei confronti di questo argomento. E ancora c’è chi fa denuncia tramite la musica. Fido Guido, con il suo reggae tarantino, prova a raccontare la realtà della sua terra, ad aprire gli occhi a chi finge di non vedere. Ma l’iniziativa senza dubbio più concreta è stata promossa dal Comitato referendario Taranto Futura, che ha avviato una raccolta firme per l’indizione di un referendum consultivo sull′ipotesi di chiusura totale o parziale dello stabilimento. I risultati di tale attività avevano portato il sindaco di Taranto, Stefano Ippazio, a fissare, tramite decreto, per il prossimo 27 marzo 2011, la data di tale consultazione referendaria. Avverso questa decisione hanno però fatto ricorso al TAR di Lecce l’Ilva, la CGIL di Taranto, la CISL e Confindustria. E così, lo scorso 7 ottobre, il Tribunale Amministrativo Regionale, dando sostanzialmente ragione ai ricorrenti, ha sospeso il decreto sindacale di indizione del referendum, fissando inoltre al 12 gennaio 2011, l’udienza per la decisione nel merito di tutti i ricorsi proposti contro il referendum. Una decisione deludente ma mai quanto il fatto che tra i ricorrenti figurino CISL e CGIL, organizzazioni che, almeno teoricamente, dovrebbero tutelare le parti sociali. A propria “difesa” la CGIL ha diramato una nota nella quale spiega le motivazioni del ricorso. Motivazioni che, ancora una volta, rimandano a quel banale ricatto occupazionale sopracitato. Secondo l’organizzazione sindacale, infatti, la raccolta firme sarebbe stata viziata dalla “ingannevole e illegittima promessa che il governo avrebbe pensato al problema occupazionale”. Interrogata sulla questione, la dott.ssa Spera, responsabile di Taranto Libera, altro comitato impegnato nella lotta per la difesa dell′ambiente e del territorio, ha replicato “che i quesiti non contenevano alcun riferimento alla promessa che lo Stato avrebbe provveduto a salvaguardare i posti di lavoro. I garanti avevano eliminato questa dicitura dai quesiti originari. In realtà il TAR si riferiva alla relazione introduttiva ai quesiti che per legge deve riportare le motivazioni originarie e deve accompagnare ogni singolo quesito”. “Quando abbiamo raccolto le firme – afferma -, per illustrare le motivazioni abbiamo sempre spiegato che si trattava di un messaggio, uno scossone da parte della città nei confronti della classe dirigente, non abbiamo mai dato alcuna garanzia sull′impegno delle istituzioni. Come potremmo del resto? Non ci sarebbe stato bisogno di un referendum altrimenti”. “Io ritengo – aggiunge Daniela Spera- che il referendum consultivo sull′Ilva sia una iniziativa importante per dare voce alla città. Sebbene il risultato non sarebbe vincolante, sarebbe comunque un messaggio forte rivolto alla classe politica che non potrebbe rimanere sorda. Io credo che se oggi siamo in questa situazione è a causa di una mancanza di volontà da parte della classe dirigente a programmare delle alternative economiche e lavorative per questa città, che è costretta a subire una sorta di ′ricatto occupazionale′ a discapito della salute”. Lavorare è senza dubbio importante, consente di avere una vita “libera e dignitosa”, ma se il genere di lavoro è di quello che spezza la vita, allora viene a mancare il presupposto che dia importanza all’attività lavorativa stessa. La chiusura dell’Ilva ovviamente provocherebbe ingenti tassi di disoccupazione, ma si potrebbe sempre impegnare quella stessa forza lavoro nelle attività di bonifica dell’intera zona e nel contempo convertire l’economia tarantina ad altri sbocchi. Una soluzione per nulla facile, magari meno redditizia ma indubbiamente l’unica a favore di chi è nato a Taranto e vuole continuare a viverci in salute.

Anna Serrapelle -ilmegafono.org